giovedì 30 gennaio 2020

Le farfalle con lo spillo. Tratto da: La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze.

Attraversammo il paese di Arzo.
Era un paese semideserto all’alba e le donne che andavano a prendere il latte non ci guardavano. Era strano, eravamo quattro persone che non appartenevano certo a quel paese, beh... loro voltavano la faccia dall’altra parte, erano goffe, imbarazzate, non ci volevano guardare.
Arrivammo al Comando e lì, in un corridoio ad aspettare.
E in quelle ore in cui aspettammo, aspettammo, aspettammo, aspettammo, c’era una serie di quadri con le farfalle delle montagne svizzere e tutte le farfalle avevano lo spillo che le teneva ferme; e io mi ricordo che ebbi un pensiero fugace (già che non mi piaceva per niente l’idea della farfalla con lo spillo, come mio gusto non l’avrei mai fatto) e dissi:
«Non è che sono anch’io una farfalla con lo spillo?»
Mi ricordo di aver fatto questo pensiero e poi di averlo scacciato perché ero felice, ero lì; quando poi fumo ricevuti... Fu terribile.
Fu terribile questo ufficiale svizzero-tedesco, che ci aveva fatto aspettare ore senza un bicchier d’acqua, senza chiederci se volevamo acqua calda, non lo so... era inverno, era dicembre.
Mio papà cominciò a parlare:
«Sa, siamo qua, io, mia figlia che ha 13 anni per fuggire da quello che ci aspetterebbe in Italia...»
Questo rispose:
«Lei è un impostore, lei è un impostore che non vuole andare militare! Non è vero che in Italia succede questo agli ebrei!» Senza sapere, da ignorante, che gli ufficiali ebrei come mio padre non avevano diritto di appartenere all’esercito, anche se erano stati decorati nella Guerra precedente. Quindi non avrebbe potuto in nessun caso essere richiamato.
E mio papà disse:
«Mi scusi le pare che se fosse questa l’idea... io porterei mia figlia, che ha 13 anni, che è il bene della mia vita, qui sulle montagne?»
Questo disse:
«Ma no, questa è una ragazza sciocca, che siccome in Italia c’è la guerra e qui la guerra non c’è, viene certo in villeggiatura!»
Mio padre disse:
«Ma questi due vecchi signori dovrebbero aver passato la montagna, d’inverno, per venire qui, perché?»
Giulio e Rino Ravenna, che morirono poi tutte e due, Rino si suicidò a San Vittore e Giulio morì di stenti nel campo di Fossoli, per denutrizione...
«Queste poi sono delle persone che a noi danno solo fastidio, dei vecchi da curare...»
E loro, i due Ravenna, mostrarono che avevano tutti i mezzi economici, come risulta dal verbale dell’arresto in Italia (lo storico Giannantoni, che è un mio amico, mi dette il verbale originale del nostro arresto in Italia, dove risultano i soldi che avevano i Ravenna e quelli che avevamo noi) e mio mio padre disse a questo ufficiale:
«Ma guardi che io mi posso mantenere, posso mantenere me e la mia bambina.»
«Ah, viene qui a fare il signore? Noi abbiamo bisogno di gente che lavora!»
«Ma noi possiamo lavorare...»
Ci disprezzò, ci trattò malissimo, e quando io capii che tutta la paura, tutti gli sforzi, tutto il dolore di lasciare la casa erano stati inutili, io che non sono mai stata capace di fare queste scene, che non avevo mai fatto scene nella vita, mi buttai per terra, come una disperata gli abbracciai le gambe, lo pregai:
«La prego, la supplico ci tenga non ci rimandi indietro, ci uccidono!»
E lui mi mandava via, come si fa quando ci sono quei cuccioli che ti vengono addosso una volta, due volte e alla terza dici:
 «Vai che mi hai rotto!»
Questo ci mandava via in tutti i modi, non ci ha tenuto, mi ha scacciato dalle sue gambe, gli davo fastidio! Fu un assassino quell’ufficiale, che condannò a morte tre persone, perché solo io sono tornata indietro a raccontare, e non ho mai chiesto quando son tornata, non ho mai voluto sapere chi fosse.
Nel mio ricordo lui è solo il boia.
E la sua sentenza fu eseguita dai nazisti.
Ci fece riaccompagnare indietro, dalle guardie, con la baionetta infilzata. Mi ricordo le due guardie sghignazzanti con quei vecchi fucili che ci portarono più o meno là dove eravamo passati alla mattina. Tornammo indietro, piovigginava, veniva la notte. Io con le mie gambe svelte corsi verso quella rete per cercare di trovare un passaggio... Suonò tutta la suoneria della frontiera. Era uno squillo continuo, in quel silenzio dell’inverno sulle montagne. Era una suoneria che non finiva più, con un’eco... e lì, su quella rete fummo arrestati dai finanzieri italiani in camicia nera. 


Pagine 172 - Prezzo di copertina € 13,00
In appendice i testi delle leggi razziali dal 5 settembre 1938 in poi, con le immagini dei giornali dell'epoca. 
Disponibile presso La Feltrinelli libri e musica.
Disponibile su Ibs, Amazon e tutti i siti vendita online.
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

martedì 21 gennaio 2020

Liliana Segre: Ci portarono nel carcere di Varese.

E la notte stessa la passammo nel carcere di sicurezza, consegnati ai tedeschi. Il giorno dopo fummo portati da una macchina, mio papà con le manette...
Io lo guardavo, guardavo i suoi polsi.
Lui aveva delle mani bellissime.
Guardavo i suoi polsi con le manette per la colpa d’esser nato.
Mio papà con le manette, come un delinquente comune.
Ci portarono nel carcere di Varese dove fummo divisi. E io a 13 anni entrai da sola nel carcere femminile.
Voi non potete immaginare come è duro il carcere, come è veramente tremenda la prigione per chi ha fatto qualche cosa. Anche se è un assassino, un ladro, un rapinatore, anche se è un imbroglione, chiunque sia, quando si sente imprigionato ed è dentro una cella, il mondo gli crolla addosso, perché quella porta è chiusa da fuori.
Come sta una ragazzina di tredici anni, che non immagina neanche come sia fatta una prigione, che si trova buttata dentro una cella, per la colpa d’esser nata?
La fotografia, le impronte digitali, mi schedano, mi strappano da mio papà, mi mandano nella parte femminile. Mi sembrava impossibile che capitasse a me.
Ma perché? Perché? Perché? Perché?
Come si sta in una cella?
Come sono le altre?
Come ti butti sul pagliericcio?
Ricordo di essermi appoggiata a quella porta che era stata sbarrata dietro di me, e piangevo, e non avevo il coraggio di aprire gli occhi perché non sapevo cosa avrei visto in una cella di prigione.
Beh... aprii gli occhi.
Era una grande cella vuota, c’erano solo dei pagliericci per terra e delle donne.
Si alzò una ragazza, mi prese tra le sue braccia Violetta Silvera, una meravigliosa ragazza, morta subito, il primo giorno all’arrivo ad Auschwitz con la sua mamma, ed erano due belle ebree bibliche, con lunghe trecce.
Mi presero fra loro.
Violetta mi disse:
 «Vieni, vieni vicino a me e alla mia mamma. Non piangere più, stai qui con noi.»
E mi ricordo che accettai il suo abbraccio con una gratitudine estrema, e i miei singhiozzi finirono tra le sue spalle, stretta a lei, bellissima, con la sua treccia nera, mentre la sua mamma aveva una treccia lunga grigia. Erano belle, erano belle, buone, erano straordinarie.
Rimasi abbracciata a loro in quei pochi giorni.
Indimenticabile Violetta, dagli occhi viola, che aveva 19 anni. 
(Nella foto Violetta Silvera. Foto tratta dall'Archivio C.D.E.C.)


La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze. A cura di Anna Squatrito.
In appendice al libro il testo delle leggi razziali dal 5 settembre 1938 con le immagini dei giornali dell'epoca.
Pagine 172 - Prezzo di copertina € 13,00
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A Palermo, disponibile presso Enoteca Letteraria Prospero.

Liliana Segre: I contrabbandieri, mercanti di uomini senza scrupoli. Tratto da: La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze.

E io mi vedo là, su quelle montagne dietro a Varese, con i contrabbandieri che avevano contattato i Civelli, (avevano organizzato tutto loro perché mio papà dopo anni di persecuzione era un uomo stressato, impaurito anche lui da una situazione incredibile) mi vedo con la mano nella mano di mio papà e la mia piccola valigia...
Cominciammo ad andare verso Saltrio, verso Viggiù, di sera, e io cominciavo già a sentirmi un’eroina, un personaggio da film, di quei filmetti che avevo visto molto ingenua da bambina.
Mi sentivo una che avrebbe scalato la montagna, una clandestina con le carte false, (avevamo anche le carte vere nascoste, perché in Svizzera non potevamo entrare con le carte false, dovevamo avere i nostri documenti veri per dimostrare che eravamo ebrei in fuga) le gambe svelte, a correre sulle montagne dietro a Varese, per seguire i contrabbandieri che, a cifre da capogiro mercanteggiavano sulla carne umana... così come fanno gli scafisti adesso.
Scappavano gli ebrei.
Scappavano gli antifascisti.
Scappavano i giovani militari renitenti alla leva fascista repubblichina.
E i contrabbandieri si arricchivano, elementi orribili che per soldi ti traghettavano dall’altra parte, e non importava se qualcuno veniva arrestato al confine. Qualche volta vendevano le persone ancor prima che fossero passate di là della frontiera a fascisti e a tedeschi, che si preparavano a questo immediato arresto e facevano delle sorprese, sulle montagne, a gente che la montagna non la conosceva o che la conosceva così poco.
Mercanti di uomini senza scrupoli.
Io e mio papà eravamo due borghesi piccoli piccoli. Di quelli che non avevano l’attrezzatura per la montagna d’inverno, vestiti da città, nel freddo e seguivamo questi contrabbandieri.
Ci tennero per una notte sulla montagna in una casupola e la mattina dopo, all’alba, dietro Saltrio, ci accompagnarono insieme a due vecchi cugini, i signori Ravenna di settanta e ottant’anni, che si erano uniti all’ultimo momento. Piovigginava, ma io con la mano nella mano di mio papà correvamo dietro ai contrabbandieri che dicevano:
«Correte, correte, sennò arriva la ronda che vi spara, che ci spara!»
In quel momento, non posso dire, forse non avevo neanche paura, ero così presa da questo fatto, che io ero una clandestina sulla montagna, e di là la libertà...
Ma non fu così!
I contrabbandieri gettarono giù le nostre valigie in quella cava di sassi, che so esserci ancora, dietro a Saltrio, dietro a Viggiù, e quando con grande fatica data dalle pietre scivolose perché piovigginava, mio papà portò in spalla i cugini Ravenna uno per volta, e poi ci trovammo giù stanchi, già stanchi all’alba, ma così contenti che ci mancava quel pezzo di terra di nessuno e poi saremmo stati liberi... Ci abbracciammo felici, noi così negati, così non sportivi, ce l’avevamo fatta!
Beh, non fu così.
Il pessimismo di mio padre che dall’inizio sentiva che le cose sarebbero andate male, che mi diceva tutte le notti, perché dormivamo insieme in quella modesta casetta dello sfollamento:
«Se non ci fossi tu io mi sarei già andato a consegnare, perché quest’ansia di essere arrestato mi distrugge...»
Lui, uomo sensibilissimo, con delle belle mani, alto, tenero, meraviglioso... aveva ragione.
Entrati in un boschetto io vidi da lontano, e feci segno a mio papà, dei soldati che avevano le divise che assomigliavano molto a quelle tedesche. E lui mi disse:
«No, no, no, no, stai tranquilla, sono svizzeri.»
Ci presero questi due soldati, senza una parola, ci presero in consegna e ci portarono al comando militare svizzero di Arzo, il primo paese che trovammo. Sapevano già sicuramente come sarebbe andato a finire questo quartetto di persone felici, che piangevano di commozione per essere arrivati alla libertà...


La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze. A cura di Anna Squatrito
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giovedì 16 gennaio 2020

La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze.

Leggere questo libro è un viaggio nell’essenza più cruda dell’animo umano, quello che rimane quando tutto viene spazzato via, quando si rimane pelle, ossa e dolori, e si tocca la propria fragilità in equilibrio estremo con l’amore per la vita.  

Ogni ragazzo dovrebbe conoscere questa storia, ogni adolescente, ogni adulto che partecipando alla vita pubblica può decidere se simili orrori si ripeteranno o no, ogni persona che voglia essere consapevole del passato storico da cui veniamo e del futuro che è nostro dovere costruire. 

Chiudo con le parole di Liliana Segre, che inizia quasi sempre gli incontri con i giovani con questo monito alla memoria:  

Ritengo un mio grande dovere dare voce, dare luce a quasi sei milioni di esseri umani che sono stati sterminati, non perché avessero fatto qualcosa ma per la colpa di esser nati. [ … ] In realtà nessuno di noi sopravvissuti ha nel proprio vocabolario, anche se ricchissimo… compresi i filosofi, gli insegnanti che hanno potuto portare le loro testimonianze, neppure loro hanno potuto trovare le parole per dirlo, perché è indicibile.

Ma quasi tutti sceglievamo la vita.

Anche in quelle condizioni. In quelle condizioni di fame, di diventare scheletri, di non avere più le mestruazioni, di aver perso tutte le famiglie, di vedere il crematorio, di vedere le ciminiere, di sapere tutto l’orrore che abbiamo capito essere quel posto… Tutti sceglievamo la vita. 

Io invito sempre i ragazzi a non essere indifferenti. L’indifferenza è peggiore delle violenza. È come una nuvola grigia, che ti stringe, e non sai più qual è il tuo nemico, in fondo non è il tuo nemico, non fa nulla… Ma è terribile non fare nulla e girare la faccia dall’altra parte.
(Dalla recensione di Nuela Celli, Libroguerriero)

La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze. 
Pagine 172 - Prezzo di copertina € 13,00
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A Palermo, disponibile presso Enoteca Letteraria Prospero di Cinzia Orabona.  

martedì 14 gennaio 2020

Liliana Segre: L'8 settembre 1943... Tratto da: La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte dalle sue testimonianze.

Ecco che l’Italia passa un periodo incredibile nell’estate del 1943 perché, dopo la provvisoria caduta di Mussolini e la speranza di potere tornare a essere cittadini normali di serie A, dopo l’8 settembre i tedeschi diventano padroni anche dell’Italia del nord e alle leggi razziali fasciste, che erano state severe e umilianti, si sovrapposero le leggi della repubblica di Salò, che erano molto crudeli e quelle di Norimberga che avevano nel loro testo due parole: “Soluzione finale.”  Erano due parole sibilline di cui più tardi capimmo la portata, ma che allora non si voleva capire o non si capiva veramente. 
La gente era talmente lontana dal pensare...  anche gli ebrei stessi non capivano che “soluzione finale” volesse dire “soluzione finale”, quello che poi si vide. 
L’8 settembre del 1943... Due giorni dopo avrei compiuto tredici anni. Sentii la disperazione di mio padre, che aveva allora 43 anni e mentre lo zio era fuggito e si era messo in salvo, lui rimaneva a casa con i genitori anziani e una ragazzina da salvare. 
E io diventavo grande. 
Diventavo una ragazzina già vecchia.
Nel giro di 48 ore ci fu la caccia all’uomo, alla donna, al bambino, al neonato, al vecchio ebreo colpevole di esser nato.
Prefetti e Questori con grande zelo consegnarono agli occupanti nazisti gli elenchi che avevano fatto già da tempo, un censimento dei cittadini italiani di religione ebraica, e quindi si faceva poca fatica a stanare tutti. 
Andavano casa per casa ad arrestare uomini, donne, bambini, vecchi, neonati, donne incinte, solo per la colpa di esser nati ebrei e con uno spiegamento di forze incredibili... per cui si vedevano portar via bambini da camionette con soldati armati fino ai denti. 
Mi basti dire che a Venezia, dalla casa di riposo, portarono via, per ucciderli ad Auschwitz, i vecchi ricoverati, perfino una signora di 98 anni che immagino potesse essere un grave pericolo per il grande raich... Li portarono via tutti.
Era il genocidio che cominciava a mettersi in atto. 
Ma l’inizio del genocidio furono le leggi razziali del 1938, perché non si sarebbe arrivati a quel genocidio se non ci fossero state quelle leggi. 
C’è un detto nelle famiglie ebraiche, che si ripete, che si dice: “I pessimisti finirono a New York e gli ottimisti finirono ad Auschwitz .” 
È una grande verità perché la mia famiglia si affidò all’Italia che conosceva, ai vicini di casa, al senso dell’amicizia, al senso di appartenenza; non capì assolutamente che saremmo finiti così come siamo finiti. 
Scapparono prima quelli che erano pessimisti. Ci vennero a salutare, ed eravamo stupiti da questa gente che lasciava l’Italia... Milano, per andare in terra straniera. 
Ma improvvisamente tutti si trovarono in pericolo schiacciante. Cominciò questa fuga e scapparono in molti.
Mio papà aveva comprato a caro prezzo due carte di identità false, una per me e una per lui. Lì io mi chiamavo Liliana Cherubini, nata a Palermo. Ma così stupida com’ero, coi miei tredici anni, mi rifiutavo di imparare a memoria quelle generalità che non erano le mie, perchè... dire che ero nata a Palermo? Erano delle notizie non giuste... e dicevo:
«Ma perché devo imparare questo?»
Lui mi spiegava:
«Devi imparare a memoria perché possono salvare la vita a te se sarai arrestata e alle altre persone.»


La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte e trascritte dalle sue testimonianze. In appendice sono riportati i testi delle leggi razziali dal 5 settembre 1938 in poi. 
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Foto in copertina: Maria Luisa Lamanna 

Liliana Segre: Io stavo in casa a curare mio nonno...

Io stavo a casa a curare mio nonno.
Oggi sono nonna e so che cosa sia di straordinario quell’osmosi che c’è fra nonni e nipoti, quando c’è. Sento una tenerezza enorme nei confronti dei miei nipoti e quando Filippo mi dice: «Tu nonna sei il mio arcobaleno» io sono una donna felice, cosa posso desiderare di più dalla vita di essere l’arcobaleno del mio nipotino adorato? 
Io adoravo mio nonno. 
Lui aveva il morbo di Parkinson all’ultimo stadio, che negli anni è stato in parte curato, ma allora no, e mio nonno tremava irrefrenabilmente in tutto il corpo, le braccia, le gambe, la testa, la bocca. Era un rottame umano in cui solo il cervello funzionava perfettamente, intelligente e attivo. 
Io mi curavo di lui. Lo amavo tantissimo. 
Con lui, quando stava bene, andavamo al cinema di pomeriggio, a vedere quei filmetti molto semplici, molto ingenui che c’erano prima della guerra. Film che erano adatti a vecchi e bambini. Ed in seguito era diventato lui il mio bambino perché io lo curavo, facevo una specie di teatro per tenerlo allegro...
Purtroppo gli leggevo il giornale. 
Io non capivo francamente quello che gli stavo leggendo, ma lui così distrutto nel corpo e con la mente perfetta, lui che era stato un grande lavoratore, piangeva. Era un uomo fisicamente distrutto che piangeva, vedendo la rovina che arrivava e io cercavo di distrarlo. 
Mio papà, figlio meraviglioso così come era padre meraviglioso, era diviso tra il desiderio di mettere in salvo me e il desiderio di non abbandonare i suoi genitori, in quello stato, senza aiuti, senza prospettiva, mentre amici vari sollecitavano la fuga.
Non potevamo mai immaginare, che nel maggio del 1944, per una delazione (ogni uomo ebreo valeva 5.000 lire di allora che erano una somma) per una spiata, i miei nonni furono, in quelle condizioni, arrestati, portati nel campo di Fossoli e poi deportati fino ad Auschwitz dove purtroppo arrivarono ancora vivi, per essere gasati e bruciati, per la colpa di esser nati. 



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martedì 26 novembre 2019

La polizia entrava nelle case degli ebrei... - Tratto da: La civile indifferenza. Le parole di Liliana Segre fedelmente raccolte dalle sue testimonianze

La polizia entrava nelle case degli ebrei trattati da nemici della Patria.
Venivano a controllare documenti, a fare perquisizioni, a fare degli interrogatori assurdi, come fossimo stati dei pericoli pubblici.
Poliziotti piuttosto sfrontati, con aria truce, entravano con una grande sicurezza in casa. Di solito c’eravamo io e mia nonna; andavamo ad aprire la porta e ci trovavamo questi uomini che entravano con un’aria minacciosa... ricordo mia nonna, che era torinese, molto gentile, molto garbata e soprattutto gran cuoca di dolci. Lei accoglieva questi tizi dall’aria prepotente e diceva:
«Prego, ho fatto questi dolci, ve li faccio assaggiare...»
E poi faceva sempre vedere la fotografia di mio papà e di mio zio quando erano ufficiali della Prima Guerra mondiale.
Non so che cosa chiedessero, perché lei mi mandava di là, mi diceva:
«Vai, vai, vai a giocare in camera.»
Io non sapevo se andare o stare a origliare per sentire cosa avessero da dire questi poliziotti e poi avevo anche paura di quello che potevo sentire e andavo in camera mia, ma diventavo grande.
Non giocavo più.
Ci fu una grande solitudine, si contavano quelli che ancora ci salutavano per strada, si contavano quelli che ci telefonavano per dirci che ci volevano bene. 



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